Êàê ïîäàðîê ñóäüáû äëÿ íàñ - Ýòà âñòðå÷à â îñåííèé âå÷åð. Ïðèãëàøàÿ ìåíÿ íà âàëüñ, Òû ñëåãêà ïðèîáíÿë çà ïëå÷è. Áàáüå ëåòî ìîå ïðèøëî, Çàêðóæèëî â âåñåëîì òàíöå,  òîì, ÷òî ñâÿòî, à ÷òî ãðåøíî, Íåò æåëàíèÿ ðàçáèðàòüñÿ. Ïðîãîíÿÿ ñîìíåíüÿ ïðî÷ü, Ïîä÷èíÿþñü ïðè÷óäå ñòðàííîé: Õîòü íà ìèã, õîòü íà ÷àñ, õîòü íà íî÷ü Ñòàòü åäèíñòâåííîé è æåëàííîé. Íå

L'Antica Stirpe

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Òèï:Êíèãà
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Ïðîñìîòðû: 389
Ñêà÷àòü îçíàêîìèòåëüíûé ôðàãìåíò
ÊÓÏÈÒÜ È ÑÊÀ×ÀÒÜ ÇÀ: 751.19 ðóá. ×ÒÎ ÊÀ×ÀÒÜ è ÊÀÊ ×ÈÒÀÒÜ
L'Antica Stirpe Michele Amabilino E' un romanzo di fantascienza che riprende le teorie di Einstein e di Crick, un libro scritto con rigore scientifico, di avventura di dramma umano. Un romanzo a cinque stelle con recensioni e valutazioni. Dario ? un vecchio ospite in una struttura psichiatrica in una localit? del Piemonte. Intervistato da un giornalista scientifico che scrive su UFO e Extraterrestri, racconta una strana storia. Durante il secondo conflitto mondiale quando era giovane ? stato rapito con due suoi amici e portato in un mondo lontano. Lo scopo : inseminare un pianeta giovane. Dopo molte avventure, aver conosciuto degli androidi costruiti dall'antica razza aliena aver visitato un pianeta morente ritorna con i suoi amici sulla Terra. Indice Cover (#ufbb64041-9aeb-5bd6-82bf-23ccdb7b5728) Indice (#u9d1099af-72a7-5635-85a2-a65a3b8502b3) Frontespizio (#u081d7dd2-c55c-5b4e-8d53-a1146ab73da4) Copyright (#uf6699788-ca2c-5861-8e1e-83913101f412) Capitolo (#u9af3c00a-20fd-566b-89d8-f72325c45318) Michele Amabilino L’Antica Stirpe A Francis Crick Titolo | L'antica stirpe Autore | Michele Amabilino ISBN | 9788873043225 Prima edizione digitale: 2014 © Tutti i diritti riservati all’Autore Seconda edizione digitale: 2017 Tektime [email protected] (mailto:[email protected])www.traduzionelibri.it (http://www.traduzionelibri.it) Questo eBook non potr? formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potr? essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sar? sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941. Giugno 1998, in una localit? del Piemonte... Era una stradina stretta e asfaltata, che serpeggiava tra prati coltivati a mais e a grano. C’erano file di alberi frangivento e a perdita d’occhio, in lontananza, una catena montuosa di color azzurro con qua e l? puntini bianchi di case e villette. Il traffico sulla stradina era scarso, attraversata di rado da qualche macchina, trattori e biciclette. Si poteva notare qualche maratoneta o ciclista per hobby. C’era un’auto di grossa cilindrata, di color avorio che procedeva a media andatura. Una mercedes, il cui proprietario era un uomo di mezz’et? dai modi colti. La macchina si dirigeva verso una costruzione, in lontananza, insolita per il suo stile, che non somigliava affatto a una azienda agricola o a una abitazione privata. Vista da vicino sembrava pi? strana perch? aveva finestre blindate e servizio di sorveglianza a un cancello. L’uomo che era alla guida dell’auto, molto distinto e di et? matura, si qualific? alla sorveglianza come un giornalista e disse di essere atteso per un’intervista. Riconosciuto, gli fu aperto il cancello automatico, cos? l’auto sost? all'interno di un ampio parcheggio riservato al personale e ai visitatori. All’interno trov? una seconda costruzione, piuttosto bassa, di colore bianco, anche questa con finestre blindate. C’erano stradine asfaltate, aiuole, siepi, alberi. Il tutto ben curato. Qua e l? segnaletiche ai reparti e un grande quadro generale dei vari interni e dell’intero equipe medico. Dunque era una clinica, piuttosto decentrata rispetto alle altre di citt?, e che mostrava una struttura moderna, funzionale e piuttosto... austera. Era chiaro che il giornalista si trovasse in una clinica per motivi professionali in quanto egli scriveva per una rivista, famosa e internazionale, specializzata in temi scientifici. L’uomo scese dall’auto, si tolse gli occhiali da sole e prese sotto braccio una borsa da lavoro. Diede una rapida occhiata in giro e poi si diresse spedito verso una direzione. Era evidente che era stato gi? in quel posto e lo si capiva per il suo modo di fare sicuro. Giunto davanti una porta a vetri l’apr? ed entr? in una ampia sala. L’ambiente era modernamente arredato con gusto signorile ma ugualmente freddo come lo sono in genere le cliniche o gli uffici commerciali. Si rivolse cortesemente alla portineria interna e disse laconico: «Sono Tito Arnaldi, giornalista, per il solito colloquio...» Il portiere vision? distrattamente il tesserino, annu? e gli indic? una porta poco lontana. Aggiunse: «La stanno aspettando» dopodich? fece un numero interno per comunicare con qualcuno. Raggiunta una stanza che sembrava un piccolo salotto, il giornalista si sedette su di una poltroncina e prese da un tavolo con il piano di vetro, poco vicino, una rivista. La sfogli? distrattamente. Ed ecco in quell’istante giunse un giovane con pizzetto e baffi, di media statura, con un camice bianco e una targhetta con i suoi dati inserita e ben in evidenza. I due si salutarono cordialmente come vecchie conoscenze. Il medico: «Il paziente ha avuto un’altra crisi, ? stato sedato e si trova ancora nella sua stanza imbottita ma lo far? uscire e dar? disposizioni perch? venga accompagnato in questo salotto per il solito colloquio. Attenda prego.» Detto questo si allontan?. Dopo un’attesa di qualche minuto nella sala dei colloqui giunse un infermiere e un ricoverato. Quest’ultimo era un vecchio mal ridotto, magro e dall’andatura stanca. Appena vide il giornalista si illumin? in volto, contento di vedere qualcuno che provenisse da fuori, dalla societ?. Il malato e il giornalista si sedettero di fronte, vicino a un tavolino, l’infermiere si allontan? un po’ ma rimase nella stanza, guardingo. Si sent? la voce del sorvegliante dell’istituto con un tono poco professionale: «Mezz’ora, non di pi?, o si stanca troppo e magari d? i numeri...» Il vecchio fece una smorfia di disgusto, di chi contesta tutto, anche la sorveglianza dei “matti” perch? lui non si sentiva un matto ma una vittima della malasanit?. «Ci osservano, ci spiano» bisbigli? il vecchio al giornalista con un tono di complicit?. «Vedi, ci sono telecamere dappertutto.» Infatti quel posto era cos? sorvegliato da far invidia a una banca o a una galleria di quadri d’autore. C’erano elementi pericolosi, reclusi, individui cui la scienza medica si era arresa definendoli irrecuperabili. In quel posto isolato dal mondo, apparentemente lustro e confortevole, sopravvivevano persone che il mondo rifiutava da un pezzo, di cui sembrava vergognarsi. Era una prigione? Una casa di cura oppure un obitorio per viventi? Forse tutte quante le cose. Ma che cosa aveva fatto di tanto patologico quel vecchio che a stento si reggeva in piedi, chiss? da quanti anni sepolto vivo in quella struttura? Nessun crimine, forse qualche episodio di alienazione comportamentale, forse qualche comportamento strano, eccentrico, forse un modo di vivere e di vedere le cose del mondo in rotta di collisione con la comune ragione. «Dario, permetti che ti dia del tu, tanto siamo amici ormai» cos? gli si rivolse il giornalista, con voce paziente. «Sono venuto a trovarti ancora, perch? mi interessa la tua storia, torner? ancora, e ti porter? altra cioccolata che ti piace tanto...» Il vecchio gli rispose con fare nervoso: «S?, s?, torna ancora e portami altri blocchi di carta e delle matite. Sai, io disegno spesso. Mi piace tanto...» «D’accordo, d’accordo ed ora raccontami della tua esperienza. Il tuo incontro del IV tipo.» «Ah, ? cos? che si chiama? Ma guarda che strano... La mia avventura ? accaduta tanto tempo fa, quando ero ancora giovane. L’ho raccontata tante volte a tanti medici ma loro non mi credono, dicono che sono sogni, allucinazioni. Ma come ? possibile? A proposito... l’altro giorno guardandomi su di un vetro ho visto la mia immagine riflessa, non ? che mi guardo spesso perch? di specchi non ce ne sono, dicono per motivi di sicurezza, ebbene ho visto un vecchio. Sono diventato vecchio, non mi riconosco pi?, non ricordo quanti anni ho e in che anno siamo. Ho girato cos? tante case di cura» sospirando. Il giornalista lo fiss? con occhio critico, studiando quei lineamenti marcati, guardandogli dentro gli occhi come per cercare un briciolo di lucidit? che i medici sostenevano da tempo smarrita; nonostante tutto, si convinse di dare credito a quel matto, perch? cos? era stato definito da quella struttura e da tante altre, per tanti anni e senza speranza. Il vecchio con voce stanca continu?: «Allora... mi ascolti bene. Questa storia l’ho ripetuta tante volte ed ? la mia maledizione. Mi ricordo... ah come mi ricordo di quel mese di dicembre del 1942... io, Dario Filiberti, studiavo come perito agricolo e lavoravo per una masseria nei pressi di Castellamonte in provincia di Torino. Avevo degli amici, tanti, ma tra i pi? cari due di nome Mario e Gilda. Spesso andavo a fare baldoria con questo o con quello dopo il lavoro. Ricordo Mario e Gilda, ancora giovani, innamorati l’uno dell’altra. Ricordo Gilda, ragazza, solare e prosperosa... Noi tre eravamo spesso insieme, a ballare nelle feste di paese, ad alzare il gomito in quei maledetti giorni di guerra e di paura... Sembrava quella sera uguale a tante altre, fatta eccezione per una piccola bravata inedita. Avevamo preso in prestito la Balilla del padrone della masseria che si chiamava Piero e che era un vecchio rincitrullito dall’alcool. Lui se ne stava sempre in osteria a ubriacarsi, a cantare in coro vecchi motivi paesani o a giocare a carte con i beoni come lui. Cos? quella sera, io e i miei compagni, “rubammo” il suo macinino. Avevamo deciso di fare una tirata, una bella corsa e poi una bevuta per dimenticare tutte le brutture della guerra, le bombe, i rastrellamenti e tutto un mondo che era diventato cos? precario, ma cos? precario da non lasciare pi? respiro n? speranza per il futuro. Si diceva che la guerra sarebbe durata ancora a lungo e la propaganda fascista incantava i gonzi sulla magnificenza del prode esercito fascista, sulle vittorie della Germania, e il felice esito della guerra. Erano brutti tempi quelli, ma ancora pi? brutti per noi sfortunati ragazzi gettati a capofitto dentro un incubo. Io ero alla guida della macchina in una stradicciola di campagna stretta e polverosa. I fari illuminavano la strada, la divoravano sollevando qua e l? nuvole di polvere, noi guardavamo il paesaggio che era immerso in un buio pesto, puntellato da qualche fioca luce lontana di qualche casa. C’era un silenzio irreale e per qualche istante si poteva percepire la sensazione di' trovarsi smarriti, senza alcun punto di riferimento. Gi?, perch? quella sera ricordo che c’era calma piatta, senza bombardamenti, senza il via vai dei mezzi dell’esercito o dei cittadini, tanto da dare l’impressione di non vivere la guerra in prima persona. C’era troppo silenzio, noi lo avvertivamo con una sensazione strana, di inquietudine. I miei due amici fumavano qualche cicca riciclata, si abbracciavano, guardavano fuori, in strada distrattamente, io li osservavo di tanto in tanto dallo specchietto retrovisore meravigliandomi del loro strano modo di comportarsi perch? di solito manifestavano gioiosamente la loro voglia di vivere, vociando e ridendo. Di tanto in tanto tentavo anche di rompere il silenzio con una battuta di scherzo ma decisamente sembrava che quella sera tutta la gioia di vivere i nostri anni si fosse per qualche motivo spenta. Ricordo che ad un tratto la macchina si ferm? e si spensero i fari. Cercai di riavviare il motore ma inutilmente. La prima cosa che pensai fu quella di essere rimasto senza benzina lontano dai centri abitati e nei guai, poi mi accorsi che anche le luci e il motorino di avviamento non funzionavano. Non era un problema di benzina ma qualcos’altro e per questo la macchina non voleva pi? ripartire. Ricordai allora che il vecchio “rincitrullito” di Piero, il proprietario della masseria, aveva fatto il pieno di benzina senza aver adoperato per alcuna ragione la Balilla. Tutto sembrava in ordine ma il “macinino” non voleva saperne di ripartire. Imprecai e stessa cosa fecero i miei amici. Scesi dall’auto, sbattendo il cappello per terra dalla rabbia, scalciando la polvere e sentii le voci dei miei amici preoccupati per quel contrattempo. Poi aprirono le porte, scesero gi? dalla macchina passeggiando nervosamente, prendendo a calci le ruote. Si leggeva nelle loro facce e nelle loro voci sorpresa e rabbia. Fu a quel punto che sentii un sibilo nell’aria, anche i miei amici lo sentirono perch? cercarono nell’aria, girandosi, il motivo di quel suono. Il sibilo si fece pi? forte, sempre pi? forte e sembrava provenisse da tutte le direzioni. Eravamo incuriositi e disorientati. Fu un attimo e vidi nel cielo delle luci come quelle di un aereo o di un elicottero che sembrava volesse atterrare. Cosa strana per?, quelle luci erano diverse da ogni altro mezzo conosciuto - pensai - e la sagoma nera come il cielo era ancora pi? inquietante. Il veivolo appariva sempre pi? distinto nella sua forma, perch? prossimo all’atterraggio. Notai - cos? come i miei amici - la sagoma particolare, a semicerchio, librarsi leggera, compiere manovre inconsuete mai osservate, anche per un elicottero. Non aveva rotore nella parte superiore della fusoliera, non faceva rumore se non quello strano sibilo e sembrava un prototipo o un mezzo di nazionalit? sconosciuta. Atterr? a una distanza di sicurezza come se ci avesse visto dall’alto, evidentemente, con fare amichevole. Stupore, curiosit? mi inchiodarono l? davanti a osservarlo e i miei amici ebbero le stesse sensazioni. Restammo zitti a fissare imbambolati quell’oggetto. Che cos’era? - ci chiedemmo - quale poteva essere la sua nazionalit?? Tedesco? Italiano? Si trattava di un nuovo velivolo non pubblicizzato dalla propaganda di regime? O piuttosto si trattava di una operazione segretissima? Era davanti a noi, reale, e quindi doveva per forza appartenere a un esercito. Non era di eccezionali dimensioni. di colore scuro, di un metallo strano, mai osservato. Pensammo che fosse anomalo quell’atterraggio, cos? fuori dal centro abitato e ancora pi? strana la missione. Troppo piccolo per sbarchi massicci di soldati e di armi, troppo strano nella forma... Che cosa stava a fare l?? Chiss? perch? mi vennero in testa gli americani... decisamente mi trovavo fuori strada. Gilda timidamente ipotizz?: «Forse ? un mezzo di soccorso.» «Un mezzo di soccorso?» ripetei io incredulo. «Ma non ? possibile, qui non ci sono feriti da trasportare... oppure il pilota ha preso una sbornia e ha sbagliato la destinazione?» La “cosa”, perch? pi? tardi cos? la chiamammo quando ci fu chiara la situazione, atterr? silenziosamente. Notai un particolare insolito: non aveva ruote sui tre trespoli (o piedi) ma cuscinetti che ammortizzavano l’assetto sul terreno. Il sibilo cess? e subito dopo si apr? un portellone sulla parte inferiore della fusoliera. Sulla parte interna del portellone che fungeva da scala e che era ribaltato sul terreno, c’erano alcuni rilievi metallici come piccoli gradini che frenavano la pendenza. All’interno dell’aeromobile, una luce accecante. Notai due sagome piuttosto massicce e alte che uscivano, scendendo le scale lentamente. A questo punto la luce interna del veivolo si spense e cos? le sagome che vedevamo diventarono sfumate nel buio della sera. Ma c’era qualcosa di strano e non riuscivamo a capire cosa perch? notai - e forse lo notarono anche i miei amici - che quei tipi che pensavamo dei soldati chiss? di quale nazionalit?, erano ben altro. Le gambe, i piedi e soprattutto le mani, erano strani. La nostra attenzione si concentr? sui piedi di questi tipi e sulle mani anomale. Le estremit? avevano talloni troppo lunghi rispetto al normale e la parte anteriore stretta e con solo tre dita. Le mani stringevano dei bastoni metallici ed erano non umane perch? smisuratamente lunghe. Un grido di terrore mi usc? dalla gola: «Via, via, scappiamo!» Ma le nostre urla, la nostra reazione tardiva alla fuga, non bastarono a salvarci. Sentii un forte dolore alla testa, improvviso, intollerabile, con la conseguente perdita del senso di equilibrio. Cos? caddi sul terreno e mentre cadevo vidi anche i miei amici afflosciarsi per terra e torcersi come in preda ad atroci dolori. Persi i sensi. Non so esattamente quanto tempo rimasi in stato di incoscienza, ricordo che quando aprii gli occhi vidi le immagini che correvano davanti a me da destra a sinistra, per poi, dopo qualche momento, rallentare fino a fermarsi. Ricordai l’accaduto e allora mi prese un senso di terrore senza limiti, sentii il battito accelerato del mio cuore come impazzito. Cercai disperatamente di vedere i miei compagni ed essi erano l?, ancora semi-svenuti. Cercai di urlare ma non ci riuscii e mi sorpresi di essere afono. I miei occhi dilatati dal terrore vedevano qualcosa di mostruoso che neppure i miei peggiori incubi avrebbero visto. Cercai di riordinare le idee; mi trovavo in una aeronave il cui abitacolo era fortemente illuminato. C’erano tanti congegni strani, comandi che vagamente somigliavano a quelli di una cabina di aereo o a quella di un grosso mezzo navale. Ero legato con dei braccioli ai lati di un materassino imbottito e verticale, avevo uno scafandro trasparente sulla testa e tanti tubicini colorati all’altezza della bocca che comunicavano con un rilievo metallico e tondeggiante. Non potevo muovermi ed ero perfettamente cosciente della situazione. Al mio fianco Mario e Gilda anch’essi legati e impotenti, privi di sensi, nella mia stessa condizione. Non c’erano sedili per l’equipaggio del mezzo aereo, solo due sagome scure intente a incomprensibili manovre di pilotaggio. C’erano dei vetri alle pareti, abbrunati, che non mi consentivano una visuale esterna al veivolo. Eravamo in movimento. Mi trovavo su quello strano veivolo e mi resi conto che la destinazione non era di questo mondo. Osservai meglio i due piloti dell’aeromobile e un senso di abissale terrore mi prese e mi fece rabbrividire. Erano esseri mostruosi, indossavano un’armatura o una tuta, i volti erano celati da uno scafandro o da una maschera, integrale e... non avevano niente di umano. Notai i particolari del volto appena abbozzati. Mancavano gli occhi, il naso e la bocca. Avevano dei piccoli fori o fenditure. Non avevano orecchie e al loro posto soltanto piccoli rilievi retinati. Si muovevano lentamente e parlavano tra di loro in una lingua incomprensibile. Cercai di indovinare cosa si celasse dietro quella loro maschera e... rabbrividii dal terrore. Dove ci stavano portando? Mi chiesi il motivo di quel rapimento e conclusi che esso non prometteva niente di buono. Esperimenti? Cannibalismo? Schiavismo? Questo pensai visto la bio-diversit? dei soggetti, della loro provenienza e della loro tecnologia. La mia vita e quella dei miei amici erano nelle mani di quei mostri. Cercai di riordinare le idee, la cosa non era facile. La destinazione non era di questa Terra. Non avremmo pi? rivisto il nostro mondo. Lo sconforto si impadron? di me ma nonostante i cupi pensieri non riuscii a piangere. Continuai a fissare i miei amici, i quali dormivano a causa di una qualche sostanza ingerita o per il trauma subito. Casualmente diedi un’occhiata al mio orologio da polso e mi accorsi con sorpresa che si era guastato. Le lancette erano compietamente saltate. Nonostante questo, forse per incredulit?, lo portai all’orecchio (sentivo i suoni anche con quello scafandro sulla testa) ' ma non udii nulla. Scuotendolo, sentii dal rumore prodotto che tutto il meccanismo era esploso per cause sconosciute. Uno dei piloti del veivolo, accortosi dei miei movimenti, si avvicin? per slacciarmi i polsi e togliermi lo scafandro con i tubicini. Gli sentii dire qualcosa ma non capii la lingua. Non appena fui liberato da quello scafandro ingombrante, scoprii respirando che in quel veivolo c’era aria ma la forte tensione nervosa mi trad? e caddi sul pavimento lentamente come un sacco vuoto, privo di forze. Non appena mi ripresi, cercai di tranquillizzarmi ma nonostante questo non potei fare a meno di rannicchiarmi in un angolo come un bambino, spaventato. Rimasi in quella posizione, immobile, per un tempo che a me parve infinito, osservai attentamente l’interno dell’astronave e i suoi occupanti, cercai di darmi un contegno razionalizzando le mie azioni e i miei pensieri. Mi ponevo lentamente delle domande a cui non sapevo dare risposte, occorreva che sapessi qualcosa sul mio destino e quello dei miei compagni. Cercando di vincere la mia repulsione verso i piloti del veivolo rivolsi la parola a uno di essi e mi accorsi cos? quanto terrore avevo dentro perch? la mia voce mi sembr? un balbettio goffo e titubante. «Dove ci portate?» L’essere alieno, guardandomi, pronunci? qualcosa di incomprensibile seguito con un intervallo da una frase in traduzione ma dalla tonalit? metallica e, al tempo stesso, glaciale. «Silenzio, non devi disturbare!» Capii l’ostilit? di questi e mi rassegnai al silenzio ma cominciai a pensare e la prima cosa che mi venne in mente fu che l’alieno possedeva di certo un’apparecchiatura di traduzione dei linguaggi. Pensai ancora alla tecnologia in possesso e ne dedussi un certo grado di civilt?. Questa conclusione mi port? ancora a un tipo di ragionamento indiretto. Forse non sono esseri sanguinari.’ Un nuovo pensiero mi balen? nella mente e cos? cominciai a sviluppare una serie di ipotesi su di loro. Il primo interrogativo era in relazione all’astronave. Era troppo piccola per lunghi viaggi, quindi il luogo della loro provenienza non doveva essere molto distante dalla Terra. Pi? tardi mi resi conto come le mie argomentazioni fossero sbagliate e del perch? di questo. Non sapevo molto di scienza, il mio grado di istruzione riguardava la natura dei terreni, i fertilizzanti, gli antiparassitari e le coltivazioni. ‘Il Sistema Solare ? immenso’ pensavo, quindi il viaggio era impossibile... e allora, a quale pianeta eravamo diretti? Valutai l’ipotesi di una ribellione e del dirottamento dell’astronave ma la scartai perch? era un’idea folle, senza speranza. Anche a riunire le nostre povere forze io, Mario e Gilda non avremmo potuto pilotare e invertire la rotta verso la Terra perch? un’astronave non ? una macchina o un trattore. Quei mostri ci avevano rapiti per scopi che ignoravamo, di certo non avremmo pi? rivisto la Terra. Ma dove eravamo? Impossibile stabilirlo. I miei amici ripresero conoscenza e io li vidi atterriti, mostravano segni di crisi respiratoria, cos? intervenne l’alieno che stacc? l’apparecchiatura. Ancora pi? terrorizzati per la sua vicinanza (e lo vedevo dai loro occhi e dal loro pianto disperato) i poveretti si raggomitolarono in un angolo del pavimento dell’astronave e l? rimasero nonostante cercassi di tranquillizzarli. I due alieni parlavano tra di loro nella loro lingua attenti ai comandi e non sembravano risentissero delle nostre sofferenze. Andavano avanti e indietro senza stancarsi un po’. Un fatto curioso: non c’erano sedili per i due alieni e questo particolare mi lasci? veramente stupito. Non riuscimmo ad avere un'idea della durata della nostra prigionia, restammo seduti per terra a lungo. Dopo chiss? quanto tempo di immobilit? sentii un formicolio alle braccia, alle mani e alle gambe e cos?, per riattivare la circolazione del sangue, gli alieni ci videro battere le mani, scalciare. Evidentemente era gi? noto questo comportamento umano perch? vennero verso di noi. «Siete stanchi? Volete del “carburante” per il vostro organismo?» disse uno di essi traducendo dalla lingua aliena. Ci guardammo guardinghi. Non sapevamo cosa rispondere. Capimmo il significato della parola “carburante” anche se questo termine ci sembr? non appropriato. Accettammo a malincuore dell’acqua e del cibo che consisteva in una poltiglia di colore verde e dal gusto dolciastro. «? sintetico» dissero con riferimento al cibo «ma per voi biocompatibile.» Cambiando discorso, come per rassicurarci aggiunsero: «Siamo vicini alla meta ormai...» Vicino alla meta, ripetei mentalmente ma non riuscivo a capire il significato che loro davano a quelle parole. Un pianeta? Ma quale? Le poche nozioni di astronomia imparate a scuola mi informavano di pianeti a noi vicini inospitali. Il nostro Sistema Solare contava soltanto un solo luogo adatto alla vita, la Terra, tutto il resto era una somma di mondi infuocati, sterili, ghiacciati e gassosi, luoghi senza vita. E poi c’era da considerare la grande distanza tra un mondo e un altro. Un abisso di tempo, un viaggio senza fine. Impossibile esplorare tutto il Sistema Solare. La meta, ma quale meta, mi ripetevo e sentivo in me un vortice di pensieri che mi stordivano. Con nostra grande sorpresa gli alieni schiacciarono dei bottoni e le pareti interne dell’astronave si ritirarono rivelando un panorama che toglieva il respiro. Dai vetri, fuori era tutto nero come l’inchiostro, un abisso di vuoto siderale che dava le vertigini. Era evidente che i piloti manovrassero con sistemi strumentali e non a vista. L’astronave rallent? fino a fermarsi. Dai finestrini apparvero le sagome gigantesche di altre astronavi dalla forma aerodinamica, tutte illuminate. Erano tanto grandi da lasciare imbambolati, come e pi? grandi delle citt? terrestri. Erano due e, nelle loro vicinanze, sfrecciavano mezzi spaziali di ridotte dimensioni simili nella forma a quella in cui eravamo a bordo che entravano tutti nella pancia di quelle mostruosit? dello spazio. Le pi? grandi ipotizzai essere come le astronavi madre in grado di viaggiare negli spazi siderali e quelle pi? piccole, navette intente in operazioni che ricordavano quelle effettuate dalle scialuppe di un grosso mezzo navale. Pensai questo associandolo ai mezzi navali in uso nella guerra mondiale che ci eravamo lasciati sulla Terra. «Quelle sono le astronavi madri?» balbettai rivolgendomi ai piloti e indicandole con il dito. Uno di essi che sembrava il capo e che sempre mi aveva rivolto la parola, conferm? con la sua voce metallica e priva di emozioni: «Sono le nostre Ammiraglie,» La nostra navetta si introdusse lentamente nel ventre gigantesco dell’Ammiraglia e quando i piloti spensero i motori notai che c’erano altre navette, da poco atterrate, come la nostra e poi un intero esercito di alieni armati di bastoni metallici; alcuni di essi volavano su minuscoli aeromobili muniti di pedana e di un manubrio simile a quello di un monopattino. Non erano veloci ma agili nei loro spostamenti. Erano tutti l? per darci il benvenuto? «Siamo prigionieri, forse schiavi o carne da macello» bisbigliai ai miei amici che, a guardarli, sembravano pi? bianchi delle bianche lenzuola. Fu grande la nostra sorpresa quando scoprimmo che c’erano altri prigionieri come noi, terrestri, i quali erano spintonati rudemente da quei mostri con l’armatura. «Non siamo soli» fu il nostro laconico commento e poi la nostra attenzione cadde su quei disgraziati. Nella quantit?, variamente vestita forse ad indicare etnie diverse, notammo anche delle donne, insolitamente giovani come la maggioranza degli uomini. Qua e l? notammo qualche soggetto dalla capigliatura brizzolata e con qualche ruga e questo ci fece pensare che gli alieni catturassero le loro prede con una strategia mista, a volte mirata, a volte casuale. «Che ne sar? di noi?» piagnucol? Gilda spintonata e invitata a raggiungere un folto gruppo di terrestri, forse verso qualche prigione. «Dobbiamo cercare di stare insieme noi tre, di non disperderci, questo per rendere meno penoso il nostro destino» disse con voce bassa Mario cercando un accordo comune. Ci trovammo tutti riuniti in una grande stanza poco illuminata da pannelli di pietra fosforescente; c’erano dei buchi sul pavimento, forse per l’evacuazione degli escrementi, cuccette nere imbottite, in bell’ordine, e pannelli a muro con sportelli, luci e pulsanti colorati. La loro funzione pi? tardi ci fu nota. Notammo che all’ingresso non c’erano cancelli ma piccole luci pulsanti poste sul pavimento all’entrata e questo ci fu presto spiegato. Erano degli smaterializzatori di materia organica. In parole povere: la fuga non era consentita, chi osava pagava con la propria vita l’audacia o l’incoscienza del suo gesto. Eravamo belli e fritti. Ci scambiammo informazioni con non poche difficolt?. Infatti tutti quanti, meno una percentuale esigua dei presenti, era di etnia diversa. Diversa etnia significava diverso linguaggio. Una moderna torre di Babele siderale. Cos? il dialogo diventava un vero problema. Sempre pi? ci assillava l’interrogativo del perch? di questo rapimento di massa, sentivamo in ogni istante l’angoscia per la perduta libert?, dell’abisso che ormai ci separava dalla nostra cara, vecchia Terra, per i perduti affetti e interessi, per gli stili di vita individuali. Era come morire o vivere in un limbo dove non c’era pi? confine tra il sentirsi vivi o sentirsi spettri vaganti in una esistenza sfumata, eterea, senza pi? passato e senza pi? futuro. Una condizione questa che ci lasciava stremati, ci svuotava da ogni interesse alla vita. Gli occhi lucidi, lo sguardo spento, ci guardavamo cercando in qualcuno qualche traccia di vitalit?. Dopo aver mangiato ci prese una strana sonnolenza. Non riuscivamo a tenere gli occhi aperti e presto ci rendemmo conto di avere assunto un narcotico. Ci addormentammo profondamente. Difficile dire del tempo trascorso, forse ore, chiss? quante. Quando ci svegliammo gli alieni erano tra di noi con i loro bastoni metallici. Pi? erano vicini pi? sentivamo un senso di repulsione, come specie diversa, incompatibile. Ci invitarono ad alzarci con fare brusco poi - e per noi fu una sorpresa - ci informarono sul viaggio. Dunque avevano un po’ di considerazione, non ci vedevano come animali. Un alieno, forse un capo - e lo riconobbi tra tanti per il distintivo particolare sull’armatura -, lo stesso che ci aveva rapiti, ci parl? traducendo in molte lingue terrestri. Il che voleva dire che ci conoscevano da tempo e che avevano avuto modo di studiare i nostri linguaggi. «Terrestri, vi avvertiamo dello scopo di questo viaggio, la destinazione e il luogo dove ci troviamo. Stiamo per raggiungere i confini del vostro Sistema Solare. Pi? in l?, incontreremo una singolarit? dello spazio che ci inietter? in un corridoio spaziale: un buco nero. Lo attraverseremo per uscire dall’altra parte dell’Universo, a noi noto, e questo per abbreviare i tempi del viaggio. Le nostre astronavi viaggiano ad una velocit? inimmaginabile per voi, quindi quando arriveremo a destinazione saranno passati solo pochi giorni mentre sul vostro pianeta molto di pi?. La destinazione: Un pianeta ancora giovane, abitabile, pieno di opportunit? e da noi chiamato Terra 2. Cos? abbiamo deciso. Dunque, la vostra condizione sar? quella di coloni, non quella di schiavi. Questi ultimi li adoperiamo nelle miniere o in altre estrazioni e sono prigionieri nelle guerre galattiche. Li usiamo come manodopera per il nostro pianeta madre che ? Orbiter dell’impero dell’Antica Stirpe, nostra culla della vita e scopo per l’inseminazione pilotata delle specie.» Me ne stavo sempre vicino ai miei compagni di sventura, Mario e Gilda e non mi ero perso neppure una parola di quel mostro. A sentirlo, imprecai soffocando la mia voce, per non farmi sentire dagli altri. Quell’essere aveva usato la parola “inseminazione” a me familiare, il che voleva dire che considerava tutti gli esseri viventi alla pari delle piante, ovvero che non aveva scrupoli a interferire con la vita dei viventi... Questo mi fece pensare di avere a che fare con un essere privo di coscienza, almeno come la intendevo io e la sua appartenenza ad una civilt? galattica molto pi? antica della nostra e tecnologicamente pi? progredita. Cominciai a pensare sul significato della parola COSCIENZA e mi convinsi che essa ? artificiosa. Quello che a noi terrestri pu? sembrare ripugnante, a un’altra specie pu? sembrare normalit?. Poi mi chiesi quali le possibilit? delle variabilit? della vita sul pianeta degli Orbiteriani e intendevo per vita anche quella vegetale ma mi convinsi che non avrei mai avuto familiarit? con il pianeta di origine di quella specie, ma con quello in cui ero destinato con i miei compagni e dove avrei vissuto tutta la vita. Cercai di immaginarli a passeggio in una cittadina terrestre. Quali le possibili reazioni della gente e dei Governi? Mi chiesi ancora se avessero il culto dei morti e degli dei a cui affidare il loro spirito, tutte domande senza risposta perch? mi sembrava chiaro che - visto le diversit? genetiche - non fosse possibile il dialogo. Diversit? genetiche... Questo aspetto del problema mi incuriosiva e mi chiedevo come fossero realmente gli Orbiteriani tolta la loro armatura. Mi sembr? strano il fatto di vederli tutti uguali nell’aspetto come delle copie stampate mentre sulla Terra esiste la diversit? nell’aspetto f?sico delle persone, ed intendo, la statura, la costituzione, la forma del volto. Dai particolari anatomici, mani e piedi colpirono la mia attenzione e perci? esclusi che fossero mammiferi. * * * Un fremito scosse il povero vecchio, i suoi occhi fissarono allucinati il vuoto, la voce si fece tremante, piena di terrore. Url?, si dimen? come in preda a un attacco epilettico. L’infermiere corse rapidamente a bloccarlo mentre il giornalista osservava la scena visibilmente spaventato. L’infermiere spieg?: «Questa ? un’altra crisi, se continua cos? non resister? a lungo. Per favore, torni la prossima settimana; per oggi... ha fatto il pieno di incubi.» Il giornalista annu? e per un attimo sost?, vivamente impressionato, a guardarlo mentre veniva portato via di peso, le sue urla ancora nelle orecchie. Scosse la testa come per riassumere un sentimento di piet? e se ne and?. Una settimana dopo, trov? Dario in condizioni discrete e in grado di proseguire il suo racconto. «Allora dimmi, che cosa accadde a tutti i terrestri prigionieri de-’ gli alieni?» domand? con curiosit? crescente il giornalista. Il malato esit? come per trovare il filo di quel racconto interrotto bruscamente e per squarciare il velo dei ricordi (o degli incubi?). Prima di proseguire, si assicur? che il giornalista gli avesse comprato una nuova confezione di cioccolata di cui era assai ghiotto. * * * «... il viaggio prosegu? senza alcun problema, non ci fu riferito il passaggio al corridoio spaziale (o buco nero) e non avvertimmo nessuna turbolenza nell’assetto di volo. Soltanto dopo aver attraversato (diff?cile fu per noi la durata) il personale di bordo dell’astronave ci inform?. Pi? tardi ci furono serviti i soliti cibi sintetici e razioni di acqua, in contenitori cilindrici che sembravano di metallo ma leggeri e al tempo stesso resistenti agli urti. Ci riunirono in una grande stanza e poche volte riuscii a esplorare altri vani dell’astronave che mi parve cos? gigantesca da superare la pi? grande nave corazzata. Mi ricordo ancora quando la vidi dall’esterno, fuori nella spazio, cos? immensa da togliere il fiato... L’interno sembrava senza limiti, stranamente dotata di infrastrutture, di congegni da non poter essere paragonata a nessun mezzo aereo o navale, e poi la quantit? di alieni, eserciti interi indaffarati chiss? a quali lavori, il tutto dava l’impressione di una citt? nello spazio. Quello che colpiva in quella massa enorme era il rumore dei motori ma anche delle calzature dei soldati sul pavimento metallico, il ronzio sinistro proveniente da dietro qualche pannello alle pareti o il vociare confuso, incomprensibile di quella gente. Piena di scale, di montacarichi, di ascensori, di tubi posizionati a livello dei tetti, dei corridoi, delle carlinghe e poi c’erano quei curiosi tubicini trasparenti pieni di fasci di luce che vi correvano all’interno, che attraversavano i giganteschi vani e i vari piani dell’astronave. Dimenticai almeno per il momento l’interesse per la struttura dell’astronave e mi concentrai sul destino di noi tutti futuri coloni di un ignoto pianeta. Eravamo tutti adulti, non c’erano bambini come se gli alieni non fossero interessati a umani troppo giovani. Mi chiesi il motivo di questo tipo di selezione. Forse non consideravano i bambini idonei per i loro esperimenti di inseminazione? Non trovavo altra spiegazione che questa ipotesi ma forse “loro” erano estranei alla logica terrestre e poi era cos? diff?cile ipotizzare che fossero mammiferi. ‘Chiss? come ragionano’ mi ripetei. ‘Sono mostri, soltanto quello.’ Il mio amico Mario accarezzava di tanto in tanto i capelli della sua ragazza e parlava dolcemente a voce bassa, cercava di tranquillizzarla ignorando gli sguardi curiosi degli altri terrestri che occupavano con noi quel vano dell’astronave. Fino a quel momento nessuno ci aveva rivolto la parola, poi un tipo quasi vecchio ci avvicin? con fare amichevole. Parlava un italiano con forte accento straniero, disse di essere tedesco ma di conoscere qualche lingua perch? insegnante. Ci raccont? le fasi del suo rapimento, gli affetti perduti, le avversit? della guerra che volgeva al termine verso la disfatta del regime tedesco e di altri fatti di ordinaria vita. Ascoltandolo come uomo, mi resi conto di non provare alcun odio verso di lui, egli era un tedesco, s? nemico degli italiani ma nella nostra situazione tutto questo aveva perduto qualsiasi significato. Era anche lui prigioniero di una potenza molto superiore a quella della sua nazione: per questo motivo lo considerai alla pari di un qualsiasi uomo, di qualsiasi etnia, di qualsiasi politica. Lass? nello spazio, a miliardi di chilometri dalla Terra ogni attrito, ogni diversit? spariva di fronte all'ignoto e all’estrema fragilit? umana. C’era qualche altro tedesco e poi altre etnie che non mi pare il caso di elencare. Il viaggio dur? parecchio, forse giorni e giorni. Non riuscendo a quantificare il tempo trascorso consideravamo il numero dei pasti e delle ore di giorno, ipotizzando in modo approssimativo il tempo trascorso. Ci trovavamo tutti riuniti in un vano, uomini e donne, vecchi e giovani, con le nostre fragilit?. Dovevamo dimenticare il senso del pudore e le intimit? anche quelle relative ai bisogni corporali. Gli alieni sembravano non conoscere il significato di certe regole come l’igiene, le intimit? e gli altri diritti dell’uomo. Nonostante la grandiosit? dei loro mezzi, del loro grado di civilt?, erano insensibili a taluni diritti, a talune priorit?. Questo fatto lo avevamo percepito tutti e a tutti non ci era permesso di lamentarci. Mentre stavamo tutti a riflettere sulle comuni sciagure, un gruppetto di alieni ci fece visita. Erano in tre e tra questi proprio quello che sembrava un capo, che aveva quel distintivo, che ci aveva rapiti. Si rivolsero proprio a noi con fare brusco, ci invitarono a seguirli. Io, Mario e Gilda provammo ancora maggior paura, temendo chiss? cosa, ricordo il mio respiro affannoso, il battito impazzito del mio cuore. Ci portarono in un laboratorio, almeno cos? sembrava, ci stesero su delle cuccette, ci legarono, poi ci fecero entrare con un movimento automatico della cuccetta all’interno di una macchina che sembrava un forno. Al suo interno si accendevano luci e si udivano preoccupanti ronz?i. Dopo questa esperienza, ci tirarono fuori sempre in modo automatico, ci liberarono e l’alieno con il distintivo disse: «Terrestri, ora vi toglieremo un po’ della “linfa” vitale dal braccio e alcune cellule della pelle per i nostri studi, nient’altro.» Osservai da vicino quel suo viso appena abbozzato dalla maschera, scrutai quei piccoli fori all’altezza degli occhi come per incontrare il suo sguardo, poi osservai il tronco dell’alieno che sembrava non umano ma piuttosto la corazza chitinosa di un insetto, il suo addome, le estremit? tipiche degli insetti o non so di che altro, mi soffermai a riflettere. Mentre tornavamo con gli altri terrestri prigionieri apparivo assente, come se inseguissi chiss? quali tortuosi ragionamenti. L’illuminazione, quella idea fulminante che chiarisce qualcosa, quella lampadina che sembra si accenda nella testa all’improvviso o dopo chiss? quanti periodi di stasi interpretativa, l’illuminazione venne in un lampo e mi lasci? stupefatto. Ma l’idea mi sembr? assurda, cos? assurda da non potermi fidare, cos?, per cercare comprensione nell’altrui intelligenza, rivolsi la parola ai miei amici, i quali erano assenti, quasi intorpiditi dalla stanchezza e da tutti gli stress della prigionia. «Non ? un vivente» esordii e la voce mi tremava per l’emozione. «Non ? un vivente» ripetei con maggiore forza nelle parole. Mario e Gilda mi guardarono con sospetto come chi scopre un’anomalia comportamentale. «Cominci a dare i numeri?» mi chiese Mario visibilmente impressionato. «Chi non ? un vivente?» «Loro, gli alieni» chiarii io balbettando per la forte emozione. «E che cosa sono?» chiese Mario. «Fantasmi?» aggiunse Gilda prendendomi in giro. «No di certo, soltanto... soltanto dei robot» aggiunsi come uno che si trovi al limite della sopportazione e tiri fuori la verit? che conosce, a lungo taciuta. «Dei robot, tutti questi eserciti di alieni... dei robot?» Mario era sarcastico, lo si leggeva negli occhi, nel ghigno. Quel ghigno che per? presto spar?, perch? l’amico evidentemente aveva iniziato a pensare. Allora il suo sguardo si fece cupo. «Forse, forse non hai torto. Sono tutti come delle copie, come dei sigari della stessa marca...» Gilda da parte sua si lasci? sfuggire un grido di spavento, subito soffocato, poi riprendendosi un po’ dalla sorpresa, dalla scoperta cos? sensazionale ma maggiormente allarmata: «Dei robot che manovrano gigantesche astronavi e noi in balia delle macchine...» Chiamai il tedesco e segretamente gli rivelai la mia scoperta. Gli dissi di passare la voce a quanti erano in grado di capirlo. Ora eravamo in molti a conoscere la verit?, gli altri di altre etnie, che non riuscivano a capirci per ragioni di linguaggio, ci guardavano preoccupati. Il tempo era diventato piatto, inesistente, quasi artificioso e non riuscivamo a farne una stima, neppure approssimativa. Poco pi? tardi rividi quell’essere con il distintivo che sembrava un capo. Allora mi avvicinai a lui e, forse per lo stress, gli dissi sprezzante: «Tu... non sei un vivente.» L’alieno, sorpreso di quella, frase, indugi? a lungo, guardandomi diritto negli occhi, poi la sua voce metallica tuon?: «Come lo hai capito?» «Non respiri... non sei un vivente» spiegai. «Che cosa sei?» La risposta non si fece attendere. «Non sono un organismo biologico ma un’intelligenza artificiale.» Io, incuriosito, ribattei: «Parlami dei tuoi costruttori...» «I miei Creatori - li chiam? proprio cos? - mi hanno assemblato in un laboratorio con una potenzialit? intellettiva superiore agli altri miei simili. I Creatori inoltre diedero vita ai soldati e ai generali. Uno di questi sono io.» Sempre pi? incuriosito, chiesi: «Da quanto tempo esisti come intelligenza artificiale?» «Ti sembrer? quasi impossibile; ebbene io esisto da 2 milioni di anni.» «Non ? possibile, niente pu? durare cos? a lungo.» «E invece s?. Adesso che mi sono presentato dimmi... qual ? il tuo nome?» «Mi chiamo Dario» risposi «e questi miei carissimi amici sono Mario e Gilda. Hai un nome?» «S?» rispose l’alieno con fare cordiale «mi chiamo Korih A05. Generale A05.» Un po’ intimidito domandai: «Ti devo chiamare Generale A05?» «Per te sono A05 e sono disponibile ad altre domande.» «Come fanno i tuoi circuiti a durare cos? a lungo?» gli chiesi sempre pi? curioso. «Non durano cos? a lungo, sono sostituiti se entrano in avaria. Disponiamo di elementi di ricambio e di bravi robot tecnici addetti all’assemblaggio» ci? detto, salut? militarmente piegando il braccio verso il petto e si allontan? da noi forse per i suoi impegni di lavoro. Discutemmo a lungo tra noi su quanto avevamo appreso da quello straordinario essere e della nostra destinazione. Parlammo della destinazione ma a nessuno venne in mente di menzionare possibili scenari da incubo come a nessuno venne in mente possibili problemi connessi alla navigazione. Perch?? Non avevamo esperienza, non potevamo immaginare situazioni al cardiopalma. E invece qualcosa accadde... Ad un certo punto, ricordo che avvertii qualche scossone. Non ci feci caso e cos? non notarono niente di insolito gli altri terrestri ma gli scossoni si ripeterono, a volte violenti a volte appena percepibili. Che cosa stava accadendo? Mentre ci interrogavamo senza riuscire a capire il motivo, ecco che giunse, nel locale dove eravamo reclusi, un alieno. Ci parl? con un doppio linguaggio, quello alieno e quello in traduzione. «Stiamo attraversando una tempesta di meteorite.» «Siamo in pericolo?» esclamai spaventato. «Direi che la situazione ? seria.» Un terrestre domand?: «Ma da dove provengono?» L’androide rispose: «Dai resti di un piccolo pianeta esploso.» «Ma non possiamo cambiare rotta?» propose un francese. L’alieno eluse la domanda e si limit? a rassicurarci: «Abbiamo uno scudo deflettore in grado di respingere con onde antigravitazionali le masse pi? piccole in linea di collisione.» «E i meteoriti pi? grandi?» chiese sempre il francese. Non ci fu risposta e da quel silenzio capimmo la reale portata del pericolo. L’alieno si allontan? ma poco dopo, continuando la situazione grave degli scossoni all’Ammiraglia, si presentarono davanti a noi quattro alieni che ci invitarono a seguirli. Ci assegnarono un altro vano dell’astronave, completamente chiuso da pareti con spessi vetri e, nel chiuderci dentro, azionarono dei meccanismi di mantenimento. «Questa ? la camera di sopravvivenza» ci spieg? uno di essi «cos? chiamata perch? provvista di ossigeno per organismi viventi e in grado di mantenervi in vita in caso di grave impatto da meteoriti. Noi non respiriamo, quindi non corriamo pericolo in caso di squarci all’aeronave.» «Riuscirete a riparare gli eventuali danni da impatto?» chiesi preoccupato. Uno degli androidi rispose: «Possiamo. Abbiamo macchine che possono intervenire all’esterno della struttura...» La mia amica Gilda si inform?: «Quando ci farete uscire da questa. .. come la chiamate? Camera di sopravvivenza?» «Passato il pericolo» rispose uno degli alieni. Quando se ne furono andati, qualcuno si rassegn? al peggio, altri si disperarono, soltanto pochi manifestarono uno schietto ottimismo. Tra questi, il professore tedesco. Fu lui a infonderci coraggio con queste parole: «Amici miei, compagni di sventura... anche se leggo nei vostri sguardi, nella vostra mente uno stato di comprensibile agitazione, nonostante tutto vi invito a riflettere. Questi alieni sono troppo intelligenti per farsi fregare da quattro pietre impazzite, quindi, ne sono certo, sopravviveremo.» Purtroppo per? il nostro ottimismo, o almeno il tentativo di sdrammatizzare gli eventi, non fu sufficiente. Comunque salvammo la pelle. Ecco come andarono le cose... Le meteore picchiavano e picchiavano contro lo scafo della gigantesca Ammiraglia con tanta violenza da rischiare di sfondarla. E questo accadde realmente. Lo capimmo nell’udire un forte suono intermittente risuonare all’interno dell’Ammiraglia, poi una grande confusione di androidi che andavano e venivano, linguaggi concitati e incomprensibili. Sembrava di trovarsi su di un transatlantico che stesse affondando con la relativa confusione generale. Io, osservando tutto quell’andirivieni concitato, dissi ai miei compagni, angosciato: «? fatta, siamo fregati» poi chiss? perch? cominciai a gridare, cercando di attirare l’attenzione dei soldati-robot. Uno di essi mi not? e si avvicin? alla camera di sopravvivenza, mi fece segno di indossare una maschera d’ossigeno attaccata alla parete con un lungo tubo e di girare verso destra la manopola d’ossigeno, poi rivolgendosi agli altri, disse: «Indietro, indietro!» Istintivamente tutti indietreggiarono e l’alieno manovr? attraverso un pannello di comandi posto sulla parete esterna alcuni pulsanti. Una porta a vetri discese dal soffitto e isol? tutti ad eccezione di me che avevo indossato la maschera d’ossigeno. A quel punto si apr? la porta esterna. Respiravo con quell’attrezzo attaccato a un tubo ma non mi potevo muovere. L’alieno mi fece segno di pazientare, poi da un armadio prese una bombola d’ossigeno e una maschera con boccali e mi fece segno di indossarla. Trattenni il respiro e mi separai da quella di emergenza f?ssa per indossare quella individuale, poi gli chiesi con apprensione: «Che sta succedendo?» «Ti porto con me, seguimi nella cabina comandi. L? vedrai, cos? da poter informare i tuoi simili.» Lo seguii senza pi? aggiungere nulla. Ricordo soltanto il battito del mio cuore impazzito e... nient’altro. Mi port? nella cabina comandi e mi fece sedere su un seggiolino dallo schienale alto, di metallo, munito di braccioli. Mi guardai attorno. C’erano alieni dappertutto, il locale era molto grande e guardando in una precisa direzione, come uno schermo cinematografico vidi l’esterno dell’astronave. Mentre osservavo rapito lo spazio profondo, sentii lo scatto di una cinghia metallica chiudersi sul mio torace. Capii di essere stato legato. Êîíåö îçíàêîìèòåëüíîãî ôðàãìåíòà. Òåêñò ïðåäîñòàâëåí ÎÎÎ «ËèòÐåñ». Ïðî÷èòàéòå ýòó êíèãó öåëèêîì, êóïèâ ïîëíóþ ëåãàëüíóþ âåðñèþ (https://www.litres.ru/pages/biblio_book/?art=40209367&lfrom=688855901) íà ËèòÐåñ. Áåçîïàñíî îïëàòèòü êíèãó ìîæíî áàíêîâñêîé êàðòîé Visa, MasterCard, Maestro, ñî ñ÷åòà ìîáèëüíîãî òåëåôîíà, ñ ïëàòåæíîãî òåðìèíàëà, â ñàëîíå ÌÒÑ èëè Ñâÿçíîé, ÷åðåç PayPal, WebMoney, ßíäåêñ.Äåíüãè, QIWI Êîøåëåê, áîíóñíûìè êàðòàìè èëè äðóãèì óäîáíûì Âàì ñïîñîáîì.
Íàø ëèòåðàòóðíûé æóðíàë Ëó÷øåå ìåñòî äëÿ ðàçìåùåíèÿ ñâîèõ ïðîèçâåäåíèé ìîëîäûìè àâòîðàìè, ïîýòàìè; äëÿ ðåàëèçàöèè ñâîèõ òâîð÷åñêèõ èäåé è äëÿ òîãî, ÷òîáû âàøè ïðîèçâåäåíèÿ ñòàëè ïîïóëÿðíûìè è ÷èòàåìûìè. Åñëè âû, íåèçâåñòíûé ñîâðåìåííûé ïîýò èëè çàèíòåðåñîâàííûé ÷èòàòåëü - Âàñ æä¸ò íàø ëèòåðàòóðíûé æóðíàë.